“Dai, Gimi, prendi. Dai!” – continuava il padre
mentre Agim stringeva il pugno sinistro e volgeva il viso altrove. Nello
schermarsi simulava un candido senso di responsabilità che purtroppo in
quella circostanza gli era di troppo e che nessuno lì dentro, né Drita,
né il padre né egli stesso, riteneva più di tanto adatto alle
circostanze.
“Dai, ti serviranno per pagarti l’affitto,” – ripete insistentemente
il padre mentre Agim barcollava intorno alla sedia sempre con le spalle
contro il nemico, contro il “Dio” denaro. Alla fine, anche per
scongiurare un prolungarsi di quell’imbarazzante minuto, si arrese e
mentre con una mano si copriva il volto per non vedere quanti fossero,
con l’altra li infilava nascondendoli alla buona dentro la borsa della
moglie. Schifato andò in bagno a lavarsi le mani, e stava già piangendo.
La mente scrutava ogni fotogramma di vita e non lasciava nulla, nessun
pensiero sul passato, sul presente, sulla sua vita attuale, prima di
averci pianto sopra. La testa gli ciondolava dal basso e metteva a fuoco
sezioni della sua precedente vita dentro quelle mura, insieme al padre.
La nuova messa a fuoco non faceva che esaltare il contrasto tra la sua
straordinaria infelicità attuale e l’egoismo ignaro e beato dei suoi
trascorsi anni universitari. Anni nei quali, in fondo, con il senno di
adesso aveva solamente di che godere e felicitarsi.
12 ore al giorno, 5 giorni alla settimana, 4 euro e 30 centesimi ogni
ora lavorata. Con questi numeri Agim si era trovato incastrato in un
meccanismo dal quale meditava di liberarsene da tempo. Ma i numeri della
crisi che si diffondevano erano ancora più foschi e non facevano
sperare in una possibilità di scelta di qualcosa di meglio, di qualcosa
di meno penalizzante sotto tutti gli aspetti. L’economia era ai ferri
corti e il mondo finanziario, del quale da giovane rimase affascinato,
si stava consumando pian piano, portandosi sotto il suolo tutti i suoi
tecnici macellai e fedeli funzionari leccapiedi.
Tornato a casa, la moglie aprì il cancello automatico e Agim pensò in
quel momento che era come tornare ai box. Avere trent’anni era come
essere sempre in attesa di una ripartenza meno faticosa e drammatica
della precedente. Ma l’attesa consumava il tempo e gli attimi preziosi
di vita mantenendoti sempre ai box. Il cancello era verde, come sempre
lo era stato, e rumorosamente lento nell’aprirsi. Il viaggio di ritorno
era stato in silenzio. Molte altre volte aveva visto accendersi
discussioni stanche tra lui e sua moglie, ma in quel ritorno c’era stata
una strana armonia di silenzi. Il primo aveva pianto lacrime e con esse
letto le pieghe del suolo e dell’asfalto, la seconda aveva scorto nei
momenti di silenzio una certa disciplina universale in grado di redimere
il chiasso inutile e soffocante di un’intera giornata. E il mondo
avrebbe fatto schifo anche all’indomani, perciò godersi anche solo il
silenzio diventava un atto di pietas verso se stessi.
Lui stava pensando che forse doveva servire a rispettare di più e più
profondamente se stesso, anche a dispetto di quello che intorno a lui
tendeva, e sempre lo avrebbe fatto, a disturbarne la placida quiete
interiore. Ma il dubbio era che stesse in realtà commiserando la propria
incapacità di essere felice e di risultare sereno agli altri,
assumendosi una responsabilità che non esisteva: era come se per
reazione all’impossibilità di vivere all’altezza delle proprie
aspettative stesse compiangendo anche le migliori parti di sé; e
migliori rispetto alla media degli altri esseri umani, felici compresi.
In un mondo dove solo lui poteva sapere che volesse dire sentire pietà
per lui stesso, dacché nessuno gliel’avrebbe più accordata per un po’,
rimettere in circolo l’amore per la propria persona leniva a volte le
ferite ma non le rimarginava mai.
La moglie amava Agim e Agim adorava lei. C’era un rapporto
simbiotico, di mutua dipendenza rivolta alla vita, quando poteva non
fermarsi alla sopravvivenza. E questo riempiva per quasi metà il boccale
dell’anima frizzante di lui, denso e protetto da tutte le intemperie
esterne, almeno finché lei non le subiva a sua volta. Da bravo
simbionte, lui viveva delle felicità di lei e anche delle sue tristezze.
Nel buio della stanza, accoccolandosi sulla pancia di sua moglie e per
non farsi vedere da lei, si asciugava le lacrime cercando di limitarne
la possibilità di fuoriuscita.
- “Drit… mi sento come un cane sciolto che ricorda quanto poteva e
doveva stare meglio al riparo da tutti, nella casa del padrone,”- disse
Agim poco prima di prendere sonno, in un ultimo estremo tentativo di
sintesi della sua attuale complessità.
- “Ho sempre ammirato la disinvoltura dei cani sciolti” – sussurro
lei – “ma essere un cane smarrito è la cosa più triste che possa
succedere nella vita di un cane”.
Quella che non si abitava più, la casa del padrone, quasi fossero
trascorsi già dei secoli faceva molta fatica a risorgere nitida alla
memoria. Era legato genericamente alla bellezza della natura, ai suoi
luoghi condensati in vaghe ma insistenti reminiscenze di una primitiva
gioia infantile. Tale bellezza rimaneva sotto i suoi occhi, ma
inafferrabile, tutte le volte che strilli e urla di gioia di bambini e
adolescenti arrivavano al suo udito da sotto la sua finestra. Cosa ci
fosse di nuovo, tale da meritare in qualche maniera di essere vissuto
pienamente e tale da guadagnarsi ancora ogni singolo risveglio mattutino
dopo l’età d’oro dell’infanzia e dell’adolescenza, rappresentava il
rompicapo di ogni sua giornata. Lui non si era mai voluto arrendere allo
stato delle cose, al fatto che la vita dovesse essere di sole rinunce,
al fatto che il lavoro dovesse essere finalizzato al traguardo della
fine del mese, al fatto che la famiglia e l’altruismo non contassero più
un cazzo. Colto peraltro impreparato da questa assurda vita, non faceva
che rimuginare sul fatto che fino a pochi anni prima nemmeno riteneva
possibile cadere anche lui nella fatidica crisi del trentesimo anno.
I governi salvavano le bande dei banchieri dalla bancarotta,
aumentando il nuovo grande debito del millennio per tutti. Passando di
mano, dalle banche ai governi e dai governi di nuovo alle banche, quei
soldi, non facevano che aggravare la sudditanza degli Stati nei
confronti delle banche centrali private appesantendone i bilanci e
peggiorandone rating e appetibilità sul mercato globale del debito. In
questo amaro sistema si stava scavando nel baratro più profondo ad
oltranza, e il mondo del lavoro era il primo a scivolare portandosi
dietro ogni residuo di buona aspettativa. L’era della scienza, della
tecnologia per tutti e dell’informazione distribuita capillarmente alla
velocità della luce non bastava più all’ottimismo; la sua epoca stava
dimostrando quanto fosse sfuggente il sistema economico moderno di
fronte a determinate aspettative di benessere distribuito e pace sociale
sotto determinate condizioni di stress finanziario.
Aveva maturato con gli anni e le esperienze una immagine nitida e
caustica della vita. Ogni essere umano è un topolino tenuto
costantemente d’occhio da un grande onnipotente gatto. Il gatto lascia
che durante i primi anni di vita l’uomo abbia la sua illusoria
sensazione di libertà e lo lascia libero di esplorare il mondo ben
sapendo che tutto quello diventerà un giorno solo nostalgia, rimpianti,
bei ricordi. Infatti, trascorsa l’adolescenza, il gatto per puro diletto
inizierà a sgambettarlo, di tanto in tanto e del tutto
inaspettatamente: questo topolino, così, inizierà a temere per la sua
libertà e il suo futuro; invocherà dei e demoni, si scaglierà contro gli
altri topolini per assicurarsi il rifugio più sicuro, cercherà ovunque
una via di fuga definitiva, vivrà di stress e alla lunga riterrà questa
condizione l’unica possibile. In alcuni casi, il gatto uccide
accidentalmente il topolino. In molti altri, il topolino muore a seguito
di una vita fatta di sgambetti, che sono accidenti, rinunce, lavoro
forzato, vedendo infine il lasciarsi andare come l’unico possibile
conforto oramai possibile. E così, il grande gatto, che non sente
bisogni e non soffre la fame, che non desidera e non spera, che non
progetta ma esegue, senza nemmeno volerne graffiare le pance fa però
stremare tutti i topolini della Terra, quello prima e quello poi. E lo
fa con assoluta indifferenza, o forse con un ghigno beffardo.
Agim sapeva che questi erano solo i primi sgambetti e che da allora
la propria intera vita, l’ennesima, sarebbe stata costellata di tutti
gli impedimenti immaginabili. La moglie, Drita, insisteva però con
l’idea che molti ce l’avevano fatta a seminare il grande gatto. In molti
avevano usato un’astuzia in più della media dei topolini, andandosene
in Paesi dove il grande gatto poteva meno, vuoi per una natura più ricca
di risorse, vuoi per l’assenza di una vera e propria massa generica di
topolini, piuttosto organizzati in piccoli gruppi efficienti e difficili
da localizzare, voi per un antico e commovente senso di rispetto verso
la comunità e verso il grande gatto.
Il grande gatto teneva d’occhio Agim e Drita, così come aveva fatto
da prima e come avrebbe fatto con i loro figli. Se una ragione di vita
dopo i trent’anni poteva risiedere nella famiglia e nei figli, bene,
questo sentimento illuminante e totalizzante si oscurava al contatto
razionale con i rischi che il grande gatto faceva incombere sulle nuove
generazioni. I due non se la sentivano ancora di pianificare una
discendenza, per quanto desiderata. E questo bruciava soprattutto dentro
il cuore di sua moglie.
Fu durante la visione di un corteo di manifestanti, proprio sotto
l’ufficio del terzo piano di un edificio in centro città, nel quale
lavorava da ben quattro anni e mezzo, che Agim si sentì come risucchiare
da un già traboccante senso di estraneità da quel mondo finanziario, da
quel mondo lavorativo e da quella società di individui. Fu quel
schiacciamento dell’orizzonte della umana comprensione e quel senso di
tempo che si ferma drasticamente, senza futuro, che lo investirono
durante quell’eterno instante. Fu così che lasciò il lavoro per unirsi
al corteo, scese a manifestare e non poté trattenere le lacrime che
fluivano ora per un forte desiderio di giustizia sociale, ora per la
liberazione di tutte le energie positive represse e nascoste in quegli
anni. E marciando convintamente al di là delle suggestioni ideologiche e
nostalgiche degli organizzatori della manifestazione, trovava se stesso
come individuo distinto dalla folla e dotato ancora di una creatività di
pensiero da troppo tempo tarpata sotto i ripetitivi gesti di deferenza,
di accondiscendenza al volere altrui e di auto-sabotaggio del proprio
senso critico che il lavoro gli imponeva.
Accadrà ancora, magari in altre forme, che il tempo si fermerà ancora
per migliaia di vite, centinaia di migliaia, complessivamente forse
milioni o forse innumerabili. Poi tale manifestazione della medesima
possibilità si accompagnerà, come è tipico, ad una immensa rabbia solo
inizialmente esprimibile collettivamente e che finirà troppo presto col
lasciare ciascuno accasciato nel proprio autistico senso di
inadeguatezza.