domenica 23 ottobre 2022

Quando Sardi e Albanesi si "capivano": un riassunto di dieci anni di ricerche - di Alberto G. Areddu

Circa venti anni fa, al tempo disponevo di un solo strumento di albanese, un piccolo ma fortunato vocabolarietto di Leotti, iniziai ad interessarmi delle possibili relazioni del sardo con l’albanese. Sapevo che l’albanese era una lingua a sé, che aveva subito, al suo interno, molti influssi greci, latini, turchi e slavi, ma sapevo anche che rimaneva uno “zoccolo duro” di parole che avevano attratto l’attenzione di Max Leopold Wagner, studioso tedesco che si era interessato con lavori pregevoli, del sardo. All’inizio me ne interessai anch’io per trovare delle correlazioni di ambito romanzo (cioè neolatine), successivamente per trovare delle spiegazioni per quelle parole sarde, che non avendo a che fare col latino, lo stesso Wagner aveva bollato come prelatine e appartenenti alla lingua originaria dei paleosardi, che da migliaia di anni in alcune zone della Sardegna (Ogliastra e Barbagia) sopravvivono. Queste parole lasciate alla fantasia interpretativa degli studiosi locali trovavano a lor detta ora corrispettivi semitici, ora sumeri, ora etruschi, ora financo baschi. Il tutto basato sul gioco delle assonanze e non del confronto formale e semantico.

Fu così che sul piano dei realia trovai delle parole che mettevano decisamente in comunicazione paleosardo e albanese.. Orbene: come spiegare infatti che in Ogliastra il pane di terra e l’argilla son detti trocco e in albanese dialettale trokë vuol dire ‘terra’? Come spiegare altrimenti che il misterioso eni, enis ‘albero del tasso’ non sia fratello dell’albanese enjë che vale la stessa cosa? Come chiudere gli occhi dinnanzi al fatto che con àlase si indica una pianta spinosa come l’ilex aquifolium, e che in albanese abbiano hàlëzë per indicare ‘spina, piccola spina’ ?

Queste e tante altre connessioni, chi mi segue nel mio sito avrà potuto rendersi conto non essere delle mere casualità. Insomma non stavo trovando delle parole che sotto sotto potevano esser dei latinismi nascosti, perché queste parole erano unanimemente considerate dagli studiosi di sardo come prelatine, e le corrispettive albanesi, presso gli studiosi di albanese, invece come autoctone, appartenenti a quello zoccolo di parole risalenti alle antichità formative dell’albanese.

Ora come è noto, l’albanese è sottoposto da parte dei critici a diverse interpretazioni riguardo la sua costituzione storica: chi vede, come lo Jokl alla sua base la mistione di trace e di illirico, chi (la maggior parte) pensa alla continuazione dell’illirico, chi del trace. Io penso che l’albanese come il paleosardo continui il paleoillirico, una lingua pregreca, costituita da diversi dialetti indoeuropei (tra cui uno premiceneo come l’eolico), che è collassata intorno al 1500 a.C., con l’affermazione dei Micenei in Grecia, ma che ha lasciato tracce, come individuato da Giuliano Bonfante, nel pantheon ellenico e in qualche termine dialettale del greco. Sconfitti e assimilati in quelle parti della Grecia, che pur confusamente gli storici Greci avevano denominato “pelasgiche” (Attica, Tessaglia, Epiro), in altre parti, dall’Istria in giù, il paleoillirico sviluppandosi a contatto di nuove realtà storiche si evolse poi in diverse forme di illirico locale. Gli esiti di s- iniziale indoeuropeo in albanese (z-; sh-; Ø; v-; gj-) o di sk- iniziale, ci mostrano coi loro variegati esiti che non c’è stato un solo dialetto al bandolo dell’albanese, ma dialetti differenziati, che secondo lo Stadtmüller trovano poi un quadro configurativo unificante nella regione del Mati nel Medioevo.

Come i nuoresi e gli ogliastrini che resistettero alla africanizzazione dei Cartaginesi e alla completa latinizzazione dei Romani, gli Illiri restrinsero sempre più l’area di parlata dell’antica lingua materna. In molta parte della toponomastica albanese è chiara l’impronta della slavizzazione forzata (Ylli), così come l’onomastica mostra i chiari segni della turchizzazione (Bidollari), ne consegue che la vera ricerca da portare avanti nel confronto paleosardo e illirico antico sta nel lessico tanto più se dialettale. Anzi vorrei dire che ci sono all’interno della toponomastica sarda significanti che sono certamente stati paleoillirici, ma che purtroppo essendosi perso qui il significato e lì forma e significato, mai si potrà individuare il nesso: con ciò voglio dire che l’isolatezza della Sardegna centrale ha preservato molta più illiricità formale di quanta sia possibile trovare in Albania.

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Può però a questo inconveniente soccorrere un altro strumento: quello di allargare il tiro a quelle aree ove si parlavano lingue non dissimili dal paleoillirico: la Macedonia, la Pannonia, il Norico, ecc. Partendo da qui ho trovato una prova inoppugnabile del fatto che in Sardegna si parlava una lingua indoeuropea e che questa aveva il tratto della balcanicità antica.

Nella rivista Quaderni Bolotanesi (rivista poco nota ma di elevata qualità) ho approfondito recentemente la relazione tra il nome Orolo ‘aquila’ dei Traci e molti toponimi sardi, oltre al misterioso sostantivo th-orolia ‘gheppio’, che presentano lo stesso segmento Orol-. Successivamente alla pubblicazione dell’articolo ho letto un saggio di R. Doçi, Çështje onomastike pellazge-ilire-shqpitare, all’interno del quale si sostiene che toponimi albanesi come Orlani, Orlat appartengono al nucleo originario dell’albanese, quindi dobbiamo prospettare anche per l’areale illirico una radice orol- come originaria per il referente ‘aquila’ (l’ orl diffuso in alcune aree arcaicizzanti è invece prestito slavo).

In un altro studio sulla stessa rivista sarda, ho poi trovato una spiegazione al’interno del Pantheon greco per il nome della piccola civetta locale, la thonca e ho scomodato la beotica (e pregreca) denominazione di Athena Onca.

Anche dal punto di vista morfologico, ho trovato nel mio saggio diverse correlazioni, ne prospetto alcune: il suffisso paleosardo -ci, -thi che trova spiegazione nel misterioso (Ҫabej-Xhuvani) suffisso diminutivo albanese -ci, -thi; la presenza di un suffiso -ore che va con albanese -ore; un suffisso -(i)tho per nomi di pianta che ritorna nell’albanese -thë; molti toponimi paleosardi finiscono in -min, -men (Assemini, Barumini, Nuraminis) come altrettanti illirici Delminium, Sarminium, Idiminium; particolarmente interessante la individuzione di un antico articolo preposto th- che trova conferma in alcune parole albanesi come th-ëngijll ‘carbone’, th-upër ‘asta, verga’ (Orel, Pisani, Ҫabej); e forse di uno posposto, giacché l’esistenza di eniu a fianco di eni, m’ha fatto subito pensare al suffisso postedeterminativo -u delle parole terminanti in -i nell’albanese.

Altre cose ci sarebbero da approfondire: le relazioni dei costumi, delle usanze, del mondo magico e religioso: per fare ciò bisognerebbe bypassare però secoli di comune convivenza col mondo greco-romano, che possono avere determinato, stimoli al comune sentire. Non starò a dire che il canto corale sardo (a cuncordu) trova straordinarie e stimolanti convergenze con la polifonia albanese, che il ballo tondo si ripresenta ancora particolarmente vivo nelle comunità arbërëshe, che il costume tradizionale albanese secondo il Lepore, studioso dell’ Epiro, trovava corrispondenza maggiore in quello sardo, che i castellieri istrioti possono avere un nucleo di convergenza con le messapiche specchie e i nuraghe preistorici di Sardegna.

A questo punto uno potrebbe chiedersi se i suoi sforzi sono stati premiati, se l’intelighentzia locale o nazionale si è accorta della giustezza di questa pista. A parte una recensione, garbata, del noto balcanologo Emanuele Banfi, dell’Università di Milano, nessuno in Sardegna (sono passati 6 anni dalla pubblicazione) tra gli studiosi mainstream ha fatto mai cenno al mio lavoro (si veda come controprova Google Scholar), anzi recentemente uno studioso catalano, che lavora in Sardegna, senza mai nominarmi, ha bollato il mio lavoro come indegno di essere citato. Un altro, che si è prodigato per NON farmi pubblicare, ricopre ora ben due incarichi universitari! La mia tesi che i paleosardi siano stati, come dire, civilizzati, da limitati nuclei di Paleoilliri, dall’Oriente europeo è palese che li ingolosisca molto poco: perché non sanno (né vogliono sapere) nulla di Albania, nonostante il link del sardissimo Antonio Gramsci. Ci vorranno decenni perché qualcuno si accorga delle scoperte concretate, e la ragione è dovuta al fatto che i custodi della cultura universitaria, in Sardegna come in Italia, hanno nipoti e nipotini, che per fare carriera devono dire sempre sì a loro.

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